Bambini al ristorante
Strategie, tensioni e passioni di una scena alimentare

Maria Pia POZZATO

Università di Bologna

https://doi.org/10.25965/as.6857

Index

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Auteurs cités : Pierre BOURDIEU, Jean-Jacques BOUTAUD, Jean-Claude COQUET, Paolo FABBRI, Jean-Marie FLOCH, Jacques FONTANILLE, Alice GIANNITRAPANI, Erving GOFFMAN, Manar HAMMAD, Julie LAIRESSE, Marina LALATTA COSTERBOSA, Eric LANDOWSKI, Gianfranco MARRONE, François RASTIER, Oliver SACKS

Plan
Texte intégral

1. La cornice spazio temporale

Note de bas de page 1 :

Boutaud (2005, p. 16 tr. it). Come avviene in questa citazione, anche nel presente articolo si opterà per il maschile in funzione neutra intendendo per “bambino” un minore di qualsiasi genere.

Note de bas de page 2 :

È il mondo che è complicato, non le spiegazioni che ne diamo. Il linguaggio naturale non è ingenuamente dato e semplice e le spiegazioni complicate. No! Il mondo naturale e il linguaggio sono complicatissimi e sono già là. E non possiamo revocarli o ricostruirli. Però possiamo tentare di rispecificarli, e i meccanismi di rispecificazione sono di una grandissima complessità.” (Intervista raccolta da A. Toftagaard nel 1998, in Fabbri, 2017, p. 21). Anche in Fabbri 1998, passim, viene ripreso il concetto ricoeuriano di rifigurazione.

Diceva quindici anni or sono Jean-Jacques Boutaud nel suo Il senso goloso. La commensalità, il gusto, gli alimenti: “Anche se l’evoluzione dei comportamenti va nella direzione di una maggiore permissività, ogni bambino che venga infine invitato a stare a tavola con gli adulti, sa bene ancor oggi che questo comporta degli obblighi di pulizia, contegno e rispetto degli alimenti, sotto la vigilanza dei genitori”1. Nella sua apoditticità, questa affermazione sembra estratta dalle pagine di un volume di diritto o appartenere a quel genere di discorso in cui spazi, tempi e persone specifici vengono annullati in nome di un’oggettività scientifica. Invece chiunque abbia fatto esperienza del modo attuale in cui i bambini si comportano nei luoghi pubblici di ristorazione, per lo meno in Italia, sa bene che espressioni come “obbligo” e “vigilanza” si sono parecchio sfilacciate mentre il pur evocato processo verso una “maggiore permissività”, nei casi più estremi appare giunto al capolinea del caos e dell’anarchia. Persino sulla stampa e in rete molti si sono occupati della questione facendo, della cosiddetta nuova maleducazione dei più piccoli, un vero e proprio caso giornalistico. Vale però la pena, a mio avviso, di articolare al suo interno questo che ormai è un luogo comune: lo stare a tavola dei bambini nei luoghi pubblici è infatti un’occasione di rinegoziazione delle regole del vivere sociale e, in quanto tale, essa non è affatto liquidabile con il solito mala tempora currunt. Qualcuno potrà avere l’impressione che la fenomenologia descritta sia fin troppo nota e inutilmente complicata dalla descrizione semiotica ma, come tenterò di dimostrare, in realtà sono coinvolti molti parametri e molte variabili che, una volta rispecificati, come dice Paolo Fabbri, rivelano tutta la complessità di una scena sociale2.

Anche Manar Hammad, di cui sono noti gli studi semiotici dello spazio e dell’architettura, afferma che “il lavoro di tipo antropologico, sul terreno banale e famigliare di ciò che ci circonda, ci ha fornito la prova che la ricchezza dell’osservazione oltrepassa, in complessità e intrico, l’immaginario di un buon numero di teorici da camera.” (Hammad, 1989, p. 218, tr. it). Il caso che propone Hammad è curioso: un convento, con l’uso strettamente normato degli spazi, viene messo momentaneamente a disposizione di un convegno e a questo punto parte un’infinita e minuziosa ricontrattazione delle pratiche e delle soglie. Per condurre questa analisi, lo studioso si rende conto di aver tratto ispirazione da diverse discipline come l’architettura, l’antropologia, la micro-sociologia e la psicologia ma anche “di mettere tra parentesi queste distinzioni disciplinari per adottare un punto di vista unico: quello della significazione” (op. cit., p. 229). Ugualmente non si troveranno quindi qui spiegazioni causaliste (in chiave sociologica, o psicologica) del modo di stare al ristorante dei bambini di oggi.

Note de bas de page 3 :

Tante sono le variazioni connesse alla diffusione del virus, ma preferiremo farne astrazione dato che le evidenze, al momento attuale (autunno 2020), non sono sufficienti per poter dire se siamo di fronte a cambiamenti significativi e duraturi.

Non si possono ancora calcolare le conseguenze del distanziamento sociale resosi necessario a partire dal mese di marzo 2020 per l’epidemia di Sars-Covid 19 in Italia e nel mondo, quindi non le prenderemo in considerazione, anche se la situazione pandemica sottolinea ancora più radicalmente la natura complessa della scena alimentare, con le sue variabili di spazi, gesti, scambi comunicativi, azioni. È probabile, anche se ancora tutto da dimostrare, che i bambini, dopo un periodo prolungato a casa con i genitori e dopo aver visto questi ultimi uniformarsi ad alcune regole fortemente limitatrici della libertà personale, abbiano assunto a loro volta un atteggiamento più controllato. Sicuramente il loro statuto ha subìto delle variazioni in ragione del fatto che, secondo alcuni virologi, sono veicolo di infezione, per quanto largamente risparmiati dalle forme gravi di Covid. Quindi un bambino altrui che corresse attorno al nostro tavolo al ristorante in periodo di pandemia non sarebbe solo un fastidioso discolo ma addirittura un pericolo per la nostra salute3.

Prenderemo come punto di partenza e di arrivo la competenza sociale del bambino. Non c’è ovviamente un limite preciso di età dopo il quale un essere umano diventa pienamente competente, civile, nel senso più filosofico del termine. Nel Sei-Settecento la pedagogia teorizzò una severissima repressione vedendo nel bambino una sorta di nemico del vivere civile (Lalatta Costerbosa, 2019a). Oggi, il calo demografico dirada la presenza dei bambini nelle nostre case e quindi anche ai nostri deschi, pubblici e privati; e l’abbondanza di cibo, a cui i nostri piccoli sono abituati fin dalla nascita, fa sì che l’assunzione del pasto non sia più vista come un premio ma quasi come un dovere, soprattutto quando essa comporti delle limitazioni della libertà. La tradizionale minaccia “a letto senza cena” sarebbe percepita dai bambini attuali come piuttosto bizzarra e comunque molto meno tremenda di quella di una deprivazione temporanea di videogiochi e internet. Sono osservazioni banali, se si vuole, ma un’analisi semiotica non può prescindere da una riflessione preliminare sullo statuto dei valori e quindi va ponderato con attenzione il fatto che i bambini di un paese occidentale opulento considerano l’assunzione del cibo più come un dover fare che come un voler fare. La loro irrequietudine deriva sostanzialmente da questo, prova ne sia che, viceversa, un piccolo goloso di dolci ritrova una compostezza quasi militare quando arriva il dessert, e la mantiene sedendo a tavola in maniera corretta fin tanto che il suo oggetto del desiderio persiste.

Note de bas de page 4 :

Il maintien che Jean-Marie Floch vede alla base del total look di Coco Chanel (Floch, 1995) è suscettibile in italiano di una duplice traduzione: quella di mantenimento, in quanto costanza identitaria e di stile; e quella di portamento, nel senso di assetto del corpo. Ora è evidente che il bambino a tavola difficilmente si pone uno o entrambi di questi problemi, a meno che i genitori non gli impongano severe regole di etichetta, cosa sempre più rara anche nelle classi medie.

Note de bas de page 5 :

Come insegna la fenomenologia, a differenza dello spazio inteso geometricamente, il luogo è dato dall’investimento intenzionale. Se il bambino, come si è detto, non ha alcun investimento nei confronti del desco a cui è portato, assumerà un’attitudine eccentrica/esplorativa che in casi di totale mancanza di sorveglianza (non così rari) può portarlo persino a uscire dal locale, verso giardini, parcheggi, strade adiacenti.

La relazione fra estesia, estetica ed etica, per quanto riguarda lo stare a tavola al ristorante, ha una taratura diversa per un bambino occidentale contemporaneo per il quale la componente estetica non ha avuto ancora nessuna elaborazione4, la componente etica è in abbozzo sotto forma di persuasione/minaccia genitoriale, e la forma estesica consiste, come si è detto, in un investimento valoriale reso labile dall’abbondanza dei cibi a disposizione. Una circostanziata analisi semiotica del campo delle merendine ha dimostrato come queste ultime, tramite la pubblicità, risemantizzino la merenda di una volta, creando forme di consumo varie e ricche (Marrone, 2016, p. 256). Ma se si esula dall’assiologia ludico-estetica, il cibo non appare più di tanto appealing per un bambino attuale. Ne consegue che mangiare al ristorante, o in pizzeria o in qualsiasi altro locale di ristorazione, non è per lui un programma narrativo assunto in quanto tale. Si tratta di un punto fondamentale per spiegare la problematicità della competenza modale dei bambini in una situazione come questa, dato lo sbilanciamento fra la modalità del dovere a sfavore di quella del volere. Il carattere debole se non assente di assunzione del valore ha delle ripercussioni sull’organizzazione degli spazi: non vi sono zone eterotopiche, paratopiche e utopiche dove non c’è investimento di valore. Il bambino percepisce “il suo posto”, cioè la seduta assegnatagli a tavola, come una soglia facile da abbandonare più che come un limite. Ma chiunque, in un luogo di ristorazione, occupa una posizione intrinsecamente debole quanto a confini: come dice Hammad, la privatizzazione stabile di una porzione dell’estensione esige una regolamentazione rigida delle “visite” fra soggetti in compresenza, in assenza della quale non si ha padronanza del luogo (Hammad, 1989, p. 289 tr. it). In condizioni non turbolente, chi siede al tavolo di un ristorante può godere di una privatizzazione temporanea dello spazio che tuttavia rimane non delimitato da margini materiali. Di questo approfitta il piccolo avventore il quale, non essendo “centrato” da uno scopo, è portato facilmente a un comportamento nomadico5. Un’altra controprova: quando, in un ristorante, al bambino viene dato un tablet o un cellulare con cui può giocare o vedere dei contenuti a lui graditi, non si sposta più dalla sedia e anzi assume una fissità quasi innaturale. Ma su questo torneremo.

Naturalmente l’accettabilità dei comportamenti infantili dipende dalla cornice spaziotemporale: uno spostamento sarà visto come normale e forse anche auspicabile nel caso di un picnic all’aria aperta, con molto spazio a disposizione; ma in un ristorante è necessaria una più rigida strutturazione della relazione fra avventori, soprattutto per quanto riguarda le condizioni di prossimità e distanza. Insomma, molto dipende dalle caratteristiche dell’ambiente di ristorazione e dalle pratiche di fruizione. Per esempio, anche il grado di esclusività del posto o, viceversa, il suo carattere “famigliare”, teso a riprodurre un ambiente di tipo domestico, costituiscono variabili importanti per quanto riguarda il comportamento dei bambini e il suo grado di accettabilità. Se poi il locale, o parte di esso, sono prenotati in modo esclusivo da un gruppo, le soglie si modificano ancor più radicalmente (Giannitrapani, 2013, p. 121).

Tuttavia, in questo articolo, ho voluto appuntare le mie osservazioni su una “medietà situazionale” che mi permettesse, nello spazio a mia disposizione, di moltiplicare i parametri più che le tassonomie, e questo nella convinzione che, una volta stabiliti i primi, sia abbastanza semplice tenerne conto, con le dovute variazioni, nell’analisi di casi specifici. In generale, il bambino si trova al centro di tre reti sociali in interazione contrattuale ma potenzialmente conflittuale: 1) i propri commensali, in particolare i genitori ma anche le altre persone che siedono allo stesso tavolo; 2) gli altri avventori del locale; 3) i gestori del locale stesso. Ognuno di questi attori sociali ha diverse gradazioni di prossimità (Rastier, 2001) che vanno dall’immediata contiguità delle persone sedute assieme fino a un “laggiù” remoto che tuttavia è facilmente raggiungibile dai bambini qualora lasciati a briglia sciolta. Uno statuto diverso, dal punto di vista della collocazione nello spazio, è quello del terzo tipo di attore, sia esso un cameriere o il gestore del locale. Il personale ha infatti necessariamente una dinamica di spostamento e quindi anche di alternanza, per quanto riguarda la prossimità, con gli uni o con gli altri attori in gioco. Dal punto di vista delle gradazioni di prossimità e della distribuzione delle collocazioni, abbiamo quindi attori immobili (i commensali adulti), attori mobili (personale) e attori mobilizzati, ovvero i bambini qualora infrangano le regole e si mettano a circolare per il locale. Mentre la momentanea intrusione nel “cerchio di rispetto” da parte del personale è resa necessaria dal servizio (ma nessuno accetterebbe di mangiare con un cameriere che staziona alle spalle tutto il tempo, a meno che non si abiti a Downton Abbey), l’avvicinamento al nostro tavolo da parte di un bambino sconosciuto è un’infrazione della privacy.

Note de bas de page 6 :

Le reazioni a questo disagio possono essere diverse: si può procedere al deprezzamento del locale (“Pensavamo fosse un buon locale e invece…”); o si invoca la casualità, l’essere fuori luogo degli importuni (“Ma cosa ci fa gente così qui”). E così via.

Soprattutto quando il movimento dei bambini assume un’aspettualizzazione frequentativa (correre intorno ripetutamente, magari in piccoli gruppi, emettere gridolini, ecc.) l’intera forma di vita del “pranzare/cenare al ristorante” si trasforma in un’altra, di incerta definizione (Fontanille, a cura, 1993). Non solo ma, più in profondità, l’habitus di cui parla Pierre Bourdieu (1979), che è inquadramento delle posizioni sociali e al contempo stabilizzazione delle disposizioni del gusto, viene letteralmente terremotato: da un lato, le persone disturbate saranno spesso propense ad attribuire ai disturbatori un’inferiorità di classe (dal punto di vista del censo o semplicemente dell’educazione); dall’altro, la condivisione di un medesimo gusto, sancita dalla frequentazione dello stesso locale, viene messa in discussione perché non si accetta di buon grado di avere gli stessi gusti di persone da cui ci si vuole distinguere6. Come sintetizza efficacemente Alice Giannitrapani, “sono colui che frequenta quel luogo ma quel luogo è tale perché è frequentato da me: spazi e soggetti si conferiscono senso reciprocamente” (Giannitrapani, 2014, p. 265). Quindi una serata rovinata può diventare anche un vulnus più profondo a quel sistema di valori e di gusti con cui ciascuno di noi si identifica e si definisce.

2. Strategie di riparazione: il nudge dei gestori

Note de bas de page 7 :

“Malgré son enracinement spécifique dans les sciences économiques, la théorie du nudge prétend traiter et régler toutes les conduites humaines et tous les domaines de la vie sociale, de l’écologie à la consommation, des conduites civiques à la santé, et des politiques publiques en général, à partir d’un raisonnement dont la référence reste le calcul d’intérêt, tel qu’il est conçu par l’économie libérale.” (Fontanille, Lairesse, 202, p. 2). Ringrazio Juan Alonso Aldama per avermi messo a disposizione con qualche anticipo, per gli scopi di questa ricerca, i saggi di questo numero di Actes sémiotiques.

La logica narrativa vorrebbe che i gestori del locale, in quanto Destinanti, nel caso di bambini che disturbano, si dessero da fare per riportare la quiete. Ma chi gestisce un ristorante si trova, in questa situazione, di fronte a un conflitto abbastanza delicato. Posto che il suo programma narrativo principale è economico, per raggiungere il successo il gestore ha bisogno di garantire il corretto e piacevole svolgimento della cena o del pranzo dei suoi clienti. A questo scopo non è importante solo il buon cibo ma anche la qualità del servizio, la gradevolezza dell’ambiente e la cordialità dei rapporti, soprattutto nel caso di una clientela abituale. Ed è qui, nella necessità di conservare rapporti positivi con l’insieme dei propri clienti, che il gestore si trova in difficoltà nel caso di bambini che arrechino disturbo. In ambienti molto esclusivi, che hanno come valore aggiunto il proprio “buon nome”, le persone che disturbano sono messe alla porta senza troppe cerimonie o, se di estremo riguardo, si crea per loro una soluzione elegantemente separata. Ma nei locali frequentati dalla classe media, dove il valore precipuo è quello di una continuità e di una quantità di esercizio, quando si crea un conflitto fra clienti, il gestore si trova nell’impossibilità di trovare una composizione soddisfacente per la semplice ragione che non può prendere partito per gli uni o per gli altri poiché tutti, ugualmente, gli garantiscono il guadagno economico. Se non farà nulla, perderà i clienti che si sono lamentati, se interverrà in modo autoritaristico sui genitori dei disturbatori, probabilmente perderà questi ultimi come clienti. Di conseguenza, in casi come questi, il gestore ricorre a quello che con termine inglese si definisce un nudge, ovvero una persuasione dai modi moderati e gentili che rintuzzi il conflitto senza scontentare nessuno, anzi, facendo credere a ciascuno che i propri desiderata siano stati raggiunti7. Nel caso che stiamo considerando qui, questo tipo di regolamentazione è reso possibile dalla limitatezza, nell’arco di qualche ora, della pratica sociale. Se si procede a una prova di commutazione e si immagina, ad esempio, che i commensali dei vari tavoli debbano cenare in spazi contigui per un tempo più lungo, per esempio per diverse serate consecutive durante una vacanza di vari giorni nello stesso albergo, è evidente che ci sarebbe un inasprimento del conflitto e che il personale si troverebbe in grande difficoltà a gestire in modo soft la situazione. Ugualmente, per quanto riguarda gli spazi, se a causa del covid si dovessero erigere delle barriere solide fra i tavoli, con un rafforzamento materiale della soglia, ci sarebbe un abbassamento di intensità del conflitto. Ma i casi standard che stiamo considerando prevedono invece un contesto spaziotemporale di tipo sostanzialmente transitivo sul piano spaziale e transitorio su quello temporale, ed è questo che li rende interessanti perché la negoziazione diventa, in un contesto di questo tipo, più suscettibile di fluttuazioni valoriali e tensive. Alla base della difficoltà del gestore sta la fragilità intrinseca del contratto sociale in situazioni come quella della ristorazione: ammessi in un luogo pubblico, gli ospiti possono potenzialmente veder ricontrattate in ogni momento le condizioni della loro ammissione. Per esempio, non è impossibile, in locali più popolari, sentir dire dal gestore che “anche loro (cioè le famiglie che disturbano, n.d.r.) sono clienti e hanno il diritto di mangiare”. In casi come questi, il nudge lascia il posto a una sorta di sovranità del gestore che si erge a Destinante donatore, giudice ultimo ed equanime dei diritti e dei doveri dei clienti. Ma è evidente che un’argomentazione come questa è destinata a lasciare scettici coloro che distinguono ancora un ristorante da uno stand alla fiera della salsiccia. Vi è infine una terza via, per così dire, e cioè quella di sospendere il carattere polemico dell’interazione e di rimanere a un livello metalinguistico enunciazionale riguardo alla gestione delle relazioni inter-attanziali (Hammad, 1989, p. 239 tr. it). In altri termini, il gestore può tentare di far ragionare le persone enunciando concetti generali (“Se tutti facciamo un po’ di attenzione...”, “I bambini hanno le loro esigenze ma...”), strategia che appare tuttavia poco consona ai tempi.

3. L’istanziazione soggettiva del bambino

Una variabile molto importante è costituita dall’età e più in generale dallo statuto soggettivo dei bambini. Trattandosi infatti di una problematica di intersoggettività e di dinamiche conflittuali/contrattuali che implicano necessariamente la costruzione di un simulacro dell’Altro (Landowski, 1989, 2005; Goffman, 1981), tali dinamiche varieranno tantissimo a seconda che al bambino, o al gruppo di bambini, sia attribuito uno statuto di soggettività, quasi-soggettività o non soggettività (Coquet, 2004). Se un bambino in età scolare ha scelto lo spazio attorno al vostro tavolo come pista da corsa, in solitaria o in gruppo, potete tentare di dirgli qualcosa anche se lui o lei vi guarderanno con immenso stupore. Viceversa, ogni moral suasion rivolta a un infante altrui che si aggrappi alla vostra tovaglia è ragionevolmente votata all’insuccesso. Si tratta di una differenza graduale che arriva al valore minimo di soggettività nel neonato. Il bambino molto piccolo, all’interno di un ristorante, è un puro gradiente sonoro: quanto è accettabile che emetta dei suoni, fino a quanti decibel? Per quanto tempo, in caso di pianto, i tavoli circostanti manterranno la goffmaniana disattenzione civile? Il neonato è un non soggetto alla stregua di una radiolina o di un tablet, e infatti pone lo stesso problema di un dispositivo con il quale sempre più spesso i bambini al ristorante vengono “intrattenuti”. Sono i genitori stessi a riconoscere livelli diversi di soggettività ai propri bambini: se, come purtroppo raramente accade, si intrattengono con loro coinvolgendoli nella conversazione o giocando con libretti, colori, giocattoli portati da casa, i bambini sono instaurati come soggetti a pieno titolo. Se invece il bambino, come più spesso accade, viene semplicemente nutrito, cioè ci si occupa di lui nel tempo necessario all’assunzione del cibo e perché questa avvenga in modo efficace, il bambino è trattato come un quasi soggetto, e infatti il comportamento non sarebbe tanto diverso nei confronti di un animale domestico; infine, se il bambino viene collocato a un estremo del tavolo, o sul seggiolone, con un device elettronico davanti, egli viene “disinnescato”, come un meccanismo appunto, è un non soggetto ed esce completamente dalla sfera sociale. Se poi i bambini si allontanano dal tavolo dei genitori, semplicemente il loro statuto di soggettività non è più in questione, per lo meno per il tempo della loro assenza. Salvo poi riproporsi prepotentemente, e questa volta rivestito dal ruolo tematico di vittima incolpevole, quando qualcuno ne fa oggetto di rimostranze.

Note de bas de page 8 :

Faccio riferimento allo schema a p. 57 della tr. it. di Boutaud 2005, dove l’autore oppone due dimensioni, l’intensità del legame fra convitati (tra i due poli dell’affettivo e del sociale); e l’estensione dei beni (fra i due poli dell’estrema semplicità del cibo fino ai fasti del banchetto). La correlazione dei due assi produce una tassonomia di forme della commensalità. È interessante vedere come i casi che stiamo considerando sia tutti eccentrici rispetto a questo schema, a dimostrazione del fatto che i bambini al ristorante svolgono un ruolo di guastatori delle tassonomie.

Note de bas de page 9 :

La questione dei vermi sonori, su cui molto ha detto Oliver Sacks (2007), dimostra che queste situazioni non mettono in gioco solo soglie di tolleranza sociale ma anche soglie di tolleranza psico-neurologica, come stiamo per vedere a proposito dei regimi sensoriali coinvolti.

Sarebbe totalmente fuorviante sostenere che la presenza dei più piccoli porti a una intensificazione del legame affettivo a scapito del legame sociale. Le famiglie che vanno a mangiar fuori con i bambini non ricreano affatto “l’atmosfera alla buona” della cucina domestica ma assumono piuttosto un atteggiamento resistenziale: cercano cioè di godersi la serata “mondana” nonostante i bambini8. Ora, se i genitori lasciano che i propri figli corrano per il locale auto-intrattenendosi e soprattutto allontanandosi dal tavolo, si crea una nuova intensità sociale, ma all’insegna della conflittualità; mentre se, come sempre più spesso succede, i piccoli vengono ipnotizzati con internet e videogiochi, vi è un abbassamento dell’intensità sociale, poiché tutto si svolge come una partita “con il morto”. Ma anche in questo caso possono emergere situazioni di conflitto quando i bambini ascoltano per esempio per la millesima volta la stessa canzoncina, senza auricolari: fino a quando tollereremo questo verme sonoro9 che si insinua nel nostro cervello e nelle nostre conversazioni? Un’altra strategia che nei locali all’aperto dovrebbe risolvere il problema è quella di allestire una zona un po’ decentrata rispetto ai tavoli, dove i bambini possono intrattenersi con giostrine, altalene, scivoli e così via. Anche in questi casi tutto dipende dall’intensità sonora dei bambini e dalla distanza dai tavoli perché talvolta una soluzione apparentemente felice si trasforma in un nuovo incubo, e ci si ritrova a mangiare a pochi metri da un rumoroso luna park.

Le variabili personali di tolleranza non sono calcolabili, di solito chi ha o ha avuto a sua volta bambini sopporta più pazientemente situazioni di questo tipo. Ma ne parleremo nel paragrafo 5, quando tratteremo il tema delle passioni.

4. I regimi sensoriali

Note de bas de page 10 :

Ometto quello legato all’olfatto perché è fortunatamente molto più raro che dei bambini al ristorante disturbino da questo punto di vista senza un rapido intervento dei genitori. Ma anche questo sarebbe interessante da indagare: perché se si crea un problema olfattivo il genitore accorre e se si “inquina” invece a livello sonoro o cinestesico, no? Le soglie dell’“impuro” si confermano diverse a seconda dei sensi coinvolti.

Per quanto riguarda i regimi sensoriali coinvolti, vi sono delle differenze intrinseche: se un bambino al tavolo vicino fa delle cose sconvenienti come sputare il cibo, versare l’acqua sulla tovaglia, gettare molliche di pane contro i propri commensali, posso semplicemente non guardare. Ciò che offende la vista, in un locale pubblico, è abbastanza aggirabile attraverso la già citata disattenzione civile. Consideriamo invece il fastidio provocato dal movimento del/dei bambini altrui attorno al nostro tavolo, o sotto il nostro tavolo, in casi estremi. In questo caso si crea una turbolenza senso-motoria che si trasmette inevitabilmente a chi sta mangiando, a meno che non abbia seguito un training in qualche monastero tibetano. Il cerchio di rispetto fra persone, arrivato a nuova e più cogente ribalta con la pandemia, ha in genere un raggio ridotto10. Questo raggio aumenta quando si tratta di suoni poiché i nostri orecchi non sono muniti di palpebre e quindi non si può volontariamente smettere di sentire quanto è udibile. L’inquinamento sonoro è un problema sempre più diffuso, che va ben oltre il caso che stiamo considerando qui. È importante evocarlo perché non va dimenticata la contestualizzazione sociale dei fenomeni. Viviamo in un mondo rumoroso: nei bar, nei negozi, negli aeroporti, ovunque c’è musica, spesso ad alto volume. La maggior parte delle persone sembra non esserne disturbata, o per lo meno molto raramente sono osservabili reazioni di fastidio e di protesta. Il non-poter-non-udire, anziché aumentare la soglia di rispetto, sembra aver instaurato una forma generalizzata di accettazione, come se vi fosse una ineluttabilità dell’evento sonoro. È probabile quindi che si sia innalzata la soglia dell’accettabilità del rumore anche in un locale di ristorazione. Infatti, capita spesso, almeno in Italia, di mangiare con una musica di sottofondo ad alto volume, soprattutto a pranzo, o di sedere accanto a una tavolata di adulti che parlano a voce molto alta, eventualità che ci lascia scarse probabilità di avere una qualche conversazione con i nostri commensali.

Apro una breve parentesi sulle variabili culturali. L’altezza della voce nei luoghi pubblici nei paesi latini determina, con grande evidenza, un diverso grado di accettabilità degli stimoli sonori ed è sempre uno spettacolo antropologicamente affascinate, nei luoghi turistici mediterranei frequentati da persone di nazionalità diverse, vedere famiglie del Nord Europa cenare compostamente e in perfetto silenzio in mezzo alla baraonda generale. In Gran Bretagna non ci si può rivolgere a bambini sconosciuti, nemmeno se grandicelli, senza che questo susciti sdegno e sospetto. Quindi nel caso (a dire il vero piuttosto raro) in cui un bambino disturbi, ci si deve al più rivolgere agli adulti che ne sono responsabili in quel momento. In Francia vi sono ristoranti che non ammettono bambini al loro interno o che specificano, viceversa, che i bambini vi sono ben accetti. La cosa è talmente entrata nella norma sociale da non suscitare nessuna discussione mentre nel 2019, in Italia, quando alcuni ristoranti hanno cominciato a optare per l’opzione children free, si è scatenato un ampio dibattito sui giornali e in rete, nel corso del quale i ristoratori in questione erano per lo più dipinti come orchi senza cuore. Non possiamo in questa sede trattare ulteriormente delle variabili che sussistono nei diversi paesi ma tali differenze vanno almeno evocate poiché, anche all’interno della stessa Europa, esse possono essere non di dettaglio. La maggior parte delle considerazioni contenute in questo articolo sono riconducibili all’osservazione del comportamento di bambini e genitori italiani in locali italiani.

5. Passioni morali, estetiche e “viscerali”

La scena alimentare comprende per definizione una componente corporeo-fisiologica e una componente culturale. Anche nel pasto più privato e casalingo ubbidiamo a codici di vario tipo, che riguardano la scelta dei cibi e i modi della loro preparazione, i mezzi e la tempistica con cui li assumiamo, le modalità di condivisione con altri e infinite, ulteriori “grammaticalizzazioni” di cui spesso non ci rendiamo conto, così come non ci rendiamo conto delle complesse regole che applichiamo parlando la nostra lingua materna (Marrone, Giannitrapani, a cura, 2012).

Note de bas de page 11 :

Non me ne vogliano vegetariani e vegani. È solo un omaggio a Roland Barthes.

Note de bas de page 12 :

Mi rifaccio al celebre schema passionale canonico teorizzato da Jacques Fontanille dove alla patemizzazione, intesa come precisazione modale della passione, segue l’emozione, come ripercussione e leggibilità corporee della stessa. Cf. anche la ripresa del “me carne” merleaupontiano in Fontanille (2004).

Note de bas de page 13 :

Fa eccezione Salvo Montalbano, il protagonista dei famosi romanzi di Andrea Camilleri e dei telefilm ad essi ispirati. Questo “eroe sociosemiotico” (Marrone, 2018) quando mangia pretende che sia rispettata una sorta di liturgia, sia a casa che al ristorante: il commissario vuole sostanzialmente assaporare il cibo in silenzio, anche se è con altre persone.

L’assunzione del cibo in un luogo pubblico moltiplica, per dir così, i parametri sociali e condivisi della pratica. Abbiamo già visto, in riferimento alla presenza di bambini sulla scena alimentare pubblica, quanto siano complicate e intrecciate variabili come la soglia culturale di accettabilità dei loro comportamenti; la differenziazione dei regimi sensoriali; i diversi statuti di soggettività degli attori in gioco; le strategie di riparazione messe in atto da gestori e commensali di fronte alla prevedibile e frequente trasgressione delle regole da parte di un attore sociale ancora imperfetto, dal punto di vista della sua “civilizzazione”, come il bambino. Chi si siede al ristorante vuole mangiare e farlo in una situazione sociale gradevole: i due programmi narrativi vanno in genere di pari passo e possono incorrere incidenti che riguardino il primo, qualora il cibo offerto non sia all’altezza delle aspettative, o il secondo, qualora l’ambiente per una qualche ragione non sia consono a un rilassato scambio fra persone che siedono alla stessa tavola. Non ci occuperemo delle passioni di chi disapprova il cibo offerto dal locale, situazione che esula dalle nostre preoccupazioni qui, ma ci limiteremo ad articolare i possibili effetti passionali delle persone disturbate in qualche modo dalla presenza di bambini. Non si può dimenticare che stiamo parlando di un’occasione sociale che coinvolge però anche aspetti fisiologici. In concomitanza con l’assunzione del cibo, gli effetti passionali più “culturalizzati” appaiono così inevitabilmente legati alle funzioni di base dell’organismo. Se un piccino fa chiasso mentre mi fanno la messa in piega o se lo fa mentre sono affamata e sto finalmente addentando la mia bistecca con le patate fritte11, è prevedibile che le passioni non siano strutturate allo stesso modo poiché nel secondo caso il coinvolgimento della parte emotiva, cioè legata al risentimento corporeo, è più radicale12. Possiamo quindi tratteggiare una gamma di passioni etiche, estetiche ed estesiche: le prime comprendono per esempio lo sdegno, la riprovazione per la maleducazione dei bambini, per l’egoismo dei loro genitori, per la società che va a rotoli, per l’esagerato permissivismo, ecc. Il conflitto in questo caso intacca l’interlocutore come Altro sociale nella sua globalità (e qui si sprecano i ruoli tematici dell’incivile, del cattivo genitore, e così via). Una passione estetica è invece quella della “bella serata” rovinata, e quindi il rimpianto, il dispiacere, la delusione per un’occasione romantica sprecata, per una celebrazione sminuita, per non aver fatto “bella figura” con un nuovo amico, ecc. Infine, ci sono le passioni “viscerali”, quelle legate all’interferenza con il programma alimentare e quindi una sorta di disgusto (“ma si può mangiare in questo modo?”, “a me è passata la fame”, ecc.). L’esternazione o meno di queste passioni dipende ovviamente dalla psicologia e dall’educazione delle persone. Non è tuttavia ovvio che le passioni cosiddette viscerali, legate cioè al programma alimentare, trovino uno sfogo altrettanto viscerale. A volte le persone a cui è stato rovinato il gusto del cibo implodono in una scontentezza passiva e rancorosa mentre è proprio il tema etico a scatenare le peggiori discussioni, le più violente, quelle dove prende corpo un odio sociale assai più pericoloso delle sensazioni disforiche legate al disturbo della degustazione13.

Note de bas de page 14 :

In ambiti disciplinari vari, che non possiamo indagare qui, si parla per esempio di una nuova e pervasiva forma di narcisismo, a scapito della considerazione del bene comune.

È del resto evidente che qui non si tratta solo di una situazione spiacevole, in cui sicuramente tutti siamo incappati, ma di modelli di società. Il bambino al ristorante diventa un puro pretesto, quasi un ballon d’essai per il confronto/scontro fra individui adulti che come oranghi si trovano a difendere un territorio dagli incerti confini. Come si è detto all’inizio, il bambino non elegge a proprio programma narrativo il pasto al ristorante, non è interessato alla situazione, all’ambiente e spesso nemmeno al cibo. L’adulto che lo trascina lì deve quindi mettere in conto di dover allestire una sorta di strategia di riserva dopo la prima mezzoretta di tranquillità. La soluzione più facile e sempre più frequente è, come si detto, quella del disinnesco del bambino, della sua neutralizzazione tramite dispositivi elettronici usati come taser. Ma a volte, soprattutto quando i bambini sono più d’uno e si crea l’attore collettivo più temuto dai ristoratori, i genitori reagiscono in vari modi alle rimostranze (eventuali) degli altri avventori. In un Paese dove sempre più spesso i genitori picchiano gli insegnanti dei loro figli, non ci si può aspettare che essi porgano le loro scuse quando questi ultimi disturbano al ristorante: chi protesta susciterà piuttosto passioni come la rabbia, il disprezzo, l’indifferenza ostile. Invece di correggere l’incompetenza sociale del bambino e la propria, sentimenti di questo tipo nascono da una valorizzazione specifica14 che porta le persone a difendere e assumere come proprio il modello improprio di chi non ha ancora interiorizzato norme di rispetto sociale.

Conclusioni: una nuova “pedagogia nera”?

In assenza di un patto sociale condiviso, che salvaguardi il cerchio di rispetto dei diversi regimi sensoriali, mi sembra inevitabile la creazione progressiva di enclaves dove solo gli adulti saranno ammessi (non-disgiunzione dall’Altro sociale), e la concomitante creazione di ghetti, nel senso letterale del termine, dove i bambini saranno segregati con i loro accompagnatori (non-congiunzione con l’Altro sociale). (Landowski, 1997) Gli equilibri potrebbero essere modificati anche dall’aggravarsi, soprattutto in Italia, della flessione demografica.

Note de bas de page 15 :

[…] a contatto con gli altri convitati, ognuno sa o indovina quello che ci si aspetta da lui. In caso contrario, egli deve tentare di immaginare la situazione che gli si presenta e procedere per imitazione. Il rischio, infatti, è quello di esporsi alla riprovazione e allo scherno degli altri, già avvezzi ai codici in vigore.” (Boutaud, 2005, p. 16 tr. it.) Oggi sembra più probabile che chi protesta si esponga alla riprovazione e allo scherno degli altri, con una curiosa inversione valoriale.

L’innalzamento della microconflittualità sociale a scapito delle grammatiche comportamentali condivise, il fatto che i genitori dei bambini ripresi non perdano la faccia, per usare una celebre espressione goffmaniana15, ma rispondano con un’affermazione di sovranità (poter fare + poter non fare) non sarà tollerabile all’infinito in un universo di risorse limitate di spazio, di tempo, di pazienza. Ed è altrettanto ovvio che la neutralizzazione dei bambini tramite dispositivi elettronici non costituisce una soluzione del conflitto ma semmai una sua drammatica involuzione perché la pace al ristorante è sì ottenuta ma buttando dalla finestra il bambino assieme all’acqua della pasta.

Non sfuggirà lo spessore antropologico di questa problematica che riguarda non solo la convivenza civile fra estranei in un luogo pubblico ma anche il cuore delle relazioni parentali. Come ci ricorda Manar Hammad, gli antropologi qualificano spesso le società in base alla combinazione del lignaggio famigliare (matrilineare, patrilineare) con la localizzazione domiciliare (matrilocale, patrilocale). (Hammad, 1989, pp. 303-304 tr. it.) Alle comunità famigliari, più o meno estese, che condividono lo stesso tavolo al ristorante dovrebbero corrispondere, seppur transitoriamente, porzioni privative all’interno della più ampia entità sociale. Il fatto invece che i più piccoli diventino protagonisti di forme di implosione o di esplosione rispetto a questo spazio privato e identitario, indica una persistente se non ingravescente de-competenzializzazione sociale non solo dei bambini ma anche e soprattutto di quegli attori sociali, i loro genitori, che avrebbero invece il compito di condurli verso una forma di integrazione, seppur nel riconoscimento dei loro interessi peculiari. Dopo secoli e secoli di “‘pedagogia nera’ ovvero di quel tipo di educazione che istituisce (e si fonda su) logiche rigidamente gerarchiche, scandite dal principio di autorità e di cieca obbedienza, da punizioni e mortificazioni” (Lalatta Costerbosa, 2019b, p. 152), si rischia di passare a un’altrettanta nera pedagogia del laissez faire, che consegna i piccoli a un’ansiogena selvaggeria. In realtà, come auspicava Wilhelm von Humboldt, i bambini non dovrebbero essere considerati né “animali selvatici” né “animali addomesticati”, ma semplicemente bambini, accuditi e guidati.