Mapping e strategie performative. La cartografia come strumento persuasivo

Giorgio Mangani 

https://doi.org/10.25965/visible.309

Contents
Full text

Da oltre venticinque anni mi interrogo sul funzionamento profondo del cosiddetto Mapping. Perché la gente è così attratta dalle mappe ? Perché la cartografia antica è così consapevolmente elegante e attraente ?

Ho sempre avuto la sensazione che, al di là delle funzioni informative che, secondo me, le carte geografiche hanno acquisito solo molto recentemente, vi fosse una prevalente funzione performativa.

Ho sintetizzato qui i risultati delle mie precedenti ricerche.

Ho strutturato la relazione in tre asserzioni che cercherò di motivare e in una considerazione finale, secondo un approccio prevalentemente storico.

1. Tutte le carte sono dei progetti. Il carattere persuasivo delle carte geografiche non è un incidente di percorso

Credo che vada chiarito preliminarmente che le carte geografiche, tutte le carte, sono dei progetti : esse guardano al futuro, non al passato (anche quando sono carte storiche). La loro funzione descrittiva è solo uno strumento per favorire dei comportamenti (o per rendere sostanzialmente impensabili quelli contrari). Le mappe non sono state pensate per dare informazioni, ma per agire. Questo carattere non è un incidente di percorso, un disturbo del mezzo : è la loro funzione prevalente. Denis Wood, studioso statunitense della cartografia nei suoi aspetti culturali e ideologici (autore di un noto manuale sul « potere » seduttivo delle carte geografiche contemporanee), ha sostenuto per esempio che l’atlante è la forma narrativa della cartografia perché lega le mappe l’una con l’altra in una sequenza, creando inevitabilmente le condizioni per leggerle come una storia.

Un altro studioso, Robert Cole Harris, scrivendo dell’Historical Atlas of Canada, nel 1993, ha parlato dell’atlante come di una « commedia a sfondo morale » (Morality Play).

C’è chi pensa che questo fenomeno sia legato soprattutto all’impiego politico e propagandistico della cartografia e degli atlanti dell’età moderna. Si portano spesso a riguardo gli argomenti a proposito dell’impiego dei colori (i mappamondi americani della guerra fredda che evidenziavano con colori forti le aree di influenza dell’Unione Sovietica comunista o quelli nazisti degli anni Trenta che cercavano di dimostrare la strozzatura delle « naturali » ambizioni territoriali del Reich), quello della collocazione all’inizio degli atlanti americani del loro continente o i significati « secondi » della proiezione di Mercatore, che rimpicciolisce continenti depressi come l’Africa, ecc.

Si tratta di osservazioni molto fondate, ma il carattere ideologico di carte e atlanti non è un « imbarbarimento » moderno, frutto dei poteri politici che si prendono delle libertà. Questa è una prospettiva in qualche maniera ancora piuttosto positivista. Esso è un portato specifico della cartografia. Mappe e atlanti furono pensati, progettati, prodotti, percepiti e utilizzati consapevolmente, sin dalle loro origini, con questa funzione.

Non è un caso, infatti, se la prima volta che un mappa compare nella storia greca, nelle Storie di Erodoto (V sec a.C., cap. 5. 57), quando cioè Aristagora di Mileto mostra al re di Sparta Cleomene una mappa del mondo, essa venga impiegata soprattutto come argomento retorico con la funzione di supportare la forza persuasiva del ragionamento di Aristagora, che vuole convincere gli spartani a far parte della lega greca contro i persiani.

Questo carattere è infatti un portato del Mapping, che consiste nell’utilizzo di immagini che richiamano realisticamente i loro significati, ma che vengono collocate in rapporto spaziale reciproco proporzionale a quello dei loro denotata.

La constatazione che la relazione spaziale fra le parti è proporzionale a quella reale favorisce l’attendibilità anche di altre informazioni che vengono trasmesse con lo stesso mezzo, accanto a quelle spaziali. Nel caso della mappa di Aristagora, era la stessa percezione del contesto geografico del teatro della guerra contro i persiani a diventare una forma efficace di persuasione del pericolo imminente ; l’atto stesso del « vedere » era efficace.

Il meccanismo, ridotto all’essenziale, è (secondo i miei studi) che le mappe non parlano di luoghi, bensì di loci retorici, in quanto la tipizzazione stessa che le immagini cartografiche debbono utilizzare per comunicare deve rinviare necessariamente non solo ai luoghi fisici, ma anche e soprattutto alle « narrazioni » loro connesse. Per esempio, se debbo indicare Venezia con la vignetta di piazza San Marco, l’invadenza narrativa non sta tanto nel cambio di prospettiva (la vignetta della piazza è a volo d’uccello, mentre la pianta è disegnata in maniera ortogonale), perché questo è tacitamente compreso dall’osservatore, ma sta nel fatto che ho rappresentato Venezia per le « narrazioni » specifiche che le sono connesse (e che vengono richiamate alla memoria dall’immagine), emblematicamente e sinteticamente indicate dal Palazzo Ducale.

Dunque, la mappa non si sovrappone al territorio « nudo » (utilizzo l’espressione della tradizione retorica medievale che indicava un segno privo di ornatus) : tra i due piani agisce la mediazione della narrazione, del linguaggio, della cultura.

Mappe e atlanti, come ha scritto John Brian Harley, « producono » spazi, non li comunicano soltanto, ancora prima di esercitare una influenza nel comportamento di chi deve percorrerli ; essi inoltre « naturalizzano » i valori culturali presentandoli come connessi e derivati da quelli fisici.

Si tratta probabilmente di un effetto voluto (su questo hanno insistito gli studi moderni : il potere, la storpiatura della forma dei continenti, la classificazione delle regioni, ecc.), ma bisogna anche considerare che questa ambivalenza è anche dovuta al rapporto storico che si è sedimentato tra carte geografiche e procedure di memorizzazione, legato alla cosiddetta « Memoria Locativa » che faceva uso dei luoghi (loggiati, giardini, palazzi, intercolumni) per ricordare.

In questo modo si è creata una confusione tra la Topica e Topografia, in quanto in entrambe le discipline si faceva uso dello spazio per memorizzare informazioni. Ma poiché la memorizzazione era fondata emotivamente sulle immagini, spazi testi e figure, cioè i componenti costitutivi delle mappe, hanno funzionato come repertori di informazioni e, per derivazione, di narrazioni della tradizione da mandare a memoria.

Sicché la Topografia ha funzionato come Topica (fare l’elogio di un luogo significava farne la descrizione topografica ; le stesse carte a stampa di città del XVI secolo, che ebbero grande successo di pubblico, erano percepite, all’inizio, sul solco della tradizione tardo antica e medievale degli « elogi di città ») e la Topica si è avvalsa dei loci per memorizzare le informazioni (rintracciare i loci, cioè passi o citazioni della tradizione, era percepito come analogo al cacciare o pescare en plein air).

Consapevole di questa parentela, Quintiliano parlava già, nel I sec. a.C., nella Institutio oratoria (cap. ix, 2), della topografia come della più efficace scienza della persuasione. Sicché la geografia divenne, nel mondo antico e fino all’Illuminismo, sinonimo di « scienza della comunicazione ». Omero era stato il poeta più grande perché era stato anche il più grande geografo (il poeta e il geografo dovevano produrre « immagini mentali », la forza della comunicazione stava nell’impiego delle descrizioni – che erano le figure reali e quelle pensate, indifferentemente – materia specifica dei geografi, che infatti troviamo alla genesi della filosofia greca : Talete e Anassimandro erano filosofi in quanto geografi e viceversa).

Oltre alla funzione persuasiva esercitata dal « far vedere » (che sarà argomento specifico del secondo punto), la Topica svolgeva anche una funzione morale esplicita. Perché le narrazioni memorizzate con i luoghi fisici erano considerate exempla da imitare. Si imitavano gli esempi antichi nella morale come si imitavano o sfoggiavano quelli classici nella composizione dell’orazione.

Nel fornire un repertorio di esempi, dunque, le mappe, in quanto topiche, producevano comportamenti, oltre che spazi influenti.

Quando le mappe sciolte furono raccolte e pubblicate in atlanti a stampa, dal XV-XVI secolo, la funzione persuasiva venne anche accentuata (e questo spiega perché anche gli atlanti sono molto eleganti). Anzi, gli atlanti furono percepiti, all’inizio, non come un nuovo genere editoriale cartografico, ma come veri e propri nuovi « mezzi di comunicazione », alla stregua dei microscopi e dei cannocchiali ; delle macchine.

Come aveva chiarito il primo atlante geografico pubblicato a stampa, il Theatrum orbis terrarum di Abramo Ortelio (Anversa, 1570), le mappe che lo componevano, in quanto figure mnemoniche, si sarebbero impresse, come forme sulla cera, nel cuore dei lettori. Le sue carte, riccamente decorate con vistosi cartigli, le dediche, le dichiarazioni di debito scientifico, i riquadri che approfondivano informazioni geografiche e storiche, le acquarellature funzionavano come degli emblemi, un’altra caratteristica espressione artistica, morale e letteraria del tempo. Come gli emblemi, le mappe si fondavano sull’interazione tra immagine e testo, una operazione che spiegava molto spesso la apparente stranezza dell’immagine.

Per Ortelio, viste rilegate assieme, le mappe delle regioni del mondo avrebbero influito sul comportamento dei lettori dell’atlante (in genere sovrani, politici, ricchi commercianti e banchieri, intellettuali raffinati e collezionisti d’arte, considerato anche il suo costo) e li avrebbero convinti della sostanziale unità del genere umano, dell’irrazionalità dei confini nazionali, dell’orrore delle guerre di religione e della necessità di vivere in pace. Ortelio, che praticava il credo religioso di una setta, pensava che si potesse anche dimostrare con lo stesso mezzo che tutte le religioni (compresi musulmani ed ebrei) avessero gli stessi fondamenti. Ma, da buon mercante, aggiungeva anche un richiamo all’utilità che si sarebbe tratta, nei commerci, da una Europa pacificata dai conflitti religiosi che l’affliggevano.

Anche come prodotto editoriale (che ebbe, nonostante il suo prezzo altissimo, un grande successo e quarantadue edizioni nelle principali lingue), il Theatrum rivelava il proprio carattere di metacarta. Le mappe venivano stampate prima del testo (per esigenze tecniche dovute al diverso materiale delle matrici che erano di rame, rispetto ai caratteri alfabetici) e il testo compariva sul retro delle mappe (come era successo, ai primi del Cinquecento, nelle figure simboliche del Teatro del mondo di Giulio Camillo, dove i testi comparivano dietro le immagini).

Come in età medievale scrivere l’elogio di un luogo aveva significato redigere una Topografia, stampare un atlante fu percepito come un atto beneaugurante. In quanto icona geografica, l’atlante funzionava magicamente come un talismano. E infatti, quando ad Anversa fu creato, nel 1582, il Ducato di Brabante che metteva fine alle lotte per il dominio sulla città, creando un momento di pace religiosa e il consolidamento del partito antispagnolo, per celebrare l’evento fu pubblicata proprio una edizione in francese del Theatrum orbis terrarum di Ortelio presentata nella prefazione con questa specifica funzione.

L’atlante non era solo un nuovo genere geografico, era un vero e proprio nuovo mezzo di comunicazione e fu considerato, per questo motivo, un omologo dei nuovi, rivoluzionari strumenti scientifici del tempo come il microscopio e il telescopio. I quali, tuttavia, all’inizio (cioè fino alla metà del Seicento) furono visti come veicoli dotati di un forte potenziale decettivo (qualcuno ha scritto che microscopi e telescopi fecero parte dell’arredo dei laboratori scientifici per un bel po’ di tempo senza che li si sapesse adoperare, come se fossero oggetti estetici, emblemi del vedere).

Oltre a far « vedere lontano », gli atlanti, come i talismani, producevano gli eventi desiderati influenzando, attraverso il potere delle immagini (le mappe) il comportamento (il mago di corte di Elisabetta I, John Dee, ne faceva uso costante).

Per questa ragione gli atlanti nazionali dei secoli XVI e XVII (come quello inglese di Saxton, An Atlas of England and Wales del 1579, la Germania inferior di Pieter van der Keere del 1617, il Theatre françois di Maurice Bouguerreau, del 1594, o L’Italia di Giovanni Antonio Magini, del 1620) furono prima di tutto dei manifesti di intenti. Piuttosto che registrare e celebrare una unità nazionale, essi la precedevano, creando le condizioni, culturali e decettive, della sua nascita.

La geografia astrologica

Una esemplificazione del meccanismo di funzionamento della cartografia come sistema mnemonico-persuasivo sta anche nella analoga tecnica retorica dell’astrologia (confusa con la cartografia e la geografia). L’astrologia è il corrispettivo celeste della cartografia terrestre e anch’essa funziona come un sistema di loci retorici rappresentati dalle immagini geografiche. Anche qui le costellazioni celesti sono rese percepibili grazie a un sistema di figure narrative derivate dalla vita quotidiana (come il carro, il cane ecc.) oppure dalla mitologia. Esse funzionano come i topiai del giardino, luoghi fisici che tuttavia rinviano alle narrazioni suggerite dalla loro forma (le aiuole, le siepi di bosso, ecc.). Le costellazioni non sarebbero percepibili senza la costruzione delle figure « umanizzate » che viene loro sovrapposta.

Anche le figure dei pianeti influenzano il comportamento nello stesso modo in cui lo fanno le figure mnemoniche. Esse propongono, emotivamente, modelli da imitare, ma lo fanno secondo un processo deterministico il cui potere aumenta e diminuisce in relazione alle figure geometriche (il triangolo, il quadrato, l’opposizione, ecc.) che i vari pianeti costruiscono nel loro movimento intorno al sole. Dunque il luogo fisico occupato dal pianeta (anche nell’astrologia) produce il locus (cioè l’exemplum). Come accadeva nei palazzi della memoria (nei quali le stanze ospitavano ciascuna un concetto e una figura da memorizzare), il suo potere persuasivo è infatti tanto più efficace quanto più vicina alla sua « casa » (cioè la sua posizione originaria all’inizio, presunto, del percorso, cioè al suo grado zero, il giorno della creazione del mondo) è la posizione del pianeta.

Scomparendo la pratica del calcolo delle componenti fattoriali dei vari pianeti, lo zodiaco restò, fino al rilancio rinascimentale, una specie di bestiario di caratteri, confuso con gli altri repertori mnemonici come i Florilegia (dei giardini virtuali) e le altre enciclopedie medievali.

2. La descrizione dei luoghi, la cartografia fondata sull’impiego delle immagini e i diagrammi cartografici si fondano sugli stessi meccanismi : l’energia retorica delle immagini mentali

La prima funzione delle immagini era collocata nella loro capacità di muovere l’emozione, cioè nella loro energhéia. In questo sforzo, nel mondo classico, l’immagine non opera diversamente dalla parola. Entrambe debbono « far vedere », cioè sollecitare il processo mentale che attiva la phantasìa, cioè l’immaginazione.

Dunque l’energhéia è il primo stadio dell’esperienza. Ma lo sforzo di questo processo induttivo, nella parola e nell’immagine, è rivolto soprattutto a colpire l’ascoltatore/lettore/percettore al fine di rendergli chiara e netta la memorabilità della percezione, la sua nitidezza (saféneia, nel senso di trasparenza fondata sulla capacità di distinguersi), piuttosto che a conservare, nel travaso dei segni, l’aderenza all’originale, il suo realismo, nel senso moderno del termine.

Tutto l’impianto epistemologico dell’esperienza antica è infatti fondato piuttosto sulla capacità di far arrivare a destinazione il messaggio, forte e chiaro, nitido e memorabile. In questo processo il modello più autorevole è quello della geometria (una scienza considerata imparentata con la geografia), che si fonda sulla chiarezza esemplare delle figure geometriche semplici, eventualmente composte fra loro. I suoi postulati sono autoevidenti perché la loro semplicità li rende particolarmente dotati di energhéia. Non c’è soluzione di continuità tra ragionamento retorico e dimostrazione scientifica.

Grazie alla sua funzione didattica, la geografia, incentrata sulla descrizione dei luoghi, che impiega, come la geometria, i triangoli per calcolare le distanze e usa le figure per descrivere le forme del mondo, viene percepita, come ho detto, come una specie di « scienza della comunicazione ». La geografia, in quanto descrizione, e quindi arte di « far vedere », era infatti la scienza dell’energhéia, fondamento della memorabilità e dell’arte di pensare.

Giocandosi tutta la partita sulla chiarezza e la memorabilità, le immagini della geografia puntavano piuttosto a identificare lo schema strutturale delle regioni che a descrivere i loro contorni, peraltro poco noti. Il loro obiettivo non era darne forma esatta, ma piuttosto identificarle e favorirne l’immaginazione mentale e la memorizzazione. Strabone e gli altri geografi antichi utilizzeranno, secondo un modello ormai consueto ai loro tempi (lo stesso dell’astrologia), figure geometriche o associate a oggetti di uso comune : il triangolo per la Britannia e la Sicilia, il rombo per l’India, l’edera per l’Italia, la foglia di platano per il Peloponneso, ecc.

Avvalendosi delle immagini, i maestri insegnavano a scuola le storie omeriche e gli altri miti della paideia greca. Sicché, quando alcune storie di quella tradizione venivano riprodotte nelle case eleganti di età ellenistica, esse venivano dipinte come segni tachigrafici, appena schizzate. Si trattava infatti di immagini che dovevano solo richiamare alla memoria episodi già noti a una persona di media cultura.

Tuttavia il meccanismo era anche più complesso perché, nella loro indeterminatezza, le figure erano in grado, più che se fossero state esposte in dettaglio, di sviluppare le emozioni e le associazioni mentali e figurali di ciascun spettatore, con un effetto persuasivo ed emotivo insuperabile (da qui nasce la tradizione « esperienziale » del pellegrinaggio).

I parerga, le vedute paesaggistiche delle case di Pompei per esempio, erano figure che iniziavano la loro comunicazione sui muri ma la completavano, necessariamente adattata, nella testa (loro ritenevano nel cuore, organo della memoria) di ciascun diverso spettatore.

Si potrebbe sostenere che, nella genesi della pratica della scrittura, lo spazio (quello fisico del supporto scrittorio e quello mentale della virtualizzazione della lettura silenziosa) sostituisca ciò che era stata la musica per la memorizzazione (e per il ragionamento) delle culture fondate sull’oralità.

In un caso possiamo osservare materialmente l’evoluzione di questo percorso: quello della pratica del rosario.

All’origine del rosario c’è infatti il Psalterio, cioè il volume che raccoglie i salmi recitati con l’accompagnamento della musica o del ritmo musicale, la salmodia. Con il tempo il Salterio diventa la raccolta dei salmi e delle preghiere personali del fedele, la sua topica, e si confonde nel libro d’ore, una specie di diario personale (con le preghiere ai santi preferiti, le ricette di medicamenti, figure astrologiche e, per la prima volta, vedute paesistiche connesse alla biografia del proprietario). I libri d’ore sono i primi libri illustrati di vedute geografiche che intendono definire il luogo/locus del proprietario. Quello del duca di Berry rappresenta i mesi con i suoi castelli, in forma realistica, visitati in occasione delle stagioni.

Con la Devotio moderna, la preghiera finalmente consiste (di nuovo) nella produzione di « immagini mentali ». Nella salmodia è la musica a produrre e a favorire le immagini mentali, con la pratica della lettura silenziosa sono le figure geografiche (percepite come figure mnemoniche) a indurre le immagini mentali condotte e condizionate dal rosario, che funziona intimamente come un giardino virtuale (appunto, un giardino di rose) e prosegue nell’operare nella virtualizzazione come giardino della memoria, una topica.

Farò due esempi.

I mappamondi del XIV secolo inglesi, i primi che conosciamo, come quello di Hereford, vengono allestiti, in luoghi sacri, per disincentivare la pratica del pellegrinaggio ai luoghi santi (al contrario di quel che ritenevano gli storici della cartografia) e per promuovere un « pellegrinaggio virtuale » fondato sulla meditazione interiore del percorso avvalendosi di figure.

A proposito del mappamondo di Hereford (1300 ca.), Naomi Reed Kline ha spiegato che voleva candidare la cattedrale come santuario, in analogia con i nuovi luoghi sacri in miniatura che si offrivano a quel tempo ai fedeli come succedanei della terra santa : Compostela, Santo Stefano a Bologna, la stessa Roma.

Dunque, la legittimazione dei mappamondi (allestiti nelle chiese) sta nella incentivazione che viene avviata, nel XIV secolo, della devozione dell’orazione mentale che si identifica nella pratica del rosario. I mappamondi rendono inutile il viaggio, invece di favorirlo (come credono gli storici tradizionali della cartografia).

Anche il mappamondo di re Enrico III a Westminster (ma ce n’era un altro uguale nel palazzo di Winchester) aveva una analoga funzione meditativa e compunzionale. Svolgeva cioè per il sovrano la funzione del Salterio/Libro d’ore. E infatti era collocato nella sua camera da letto, considerata la sede della meditazione (la parola lectus la si faceva derivare, per errore ma significativamente, da lego, cioè si identificava con la pratica delle catene meditative della memoria, le stesse del rosario, condotte nella penombra del cubiculum).

Le vedute geografiche erano così intimamente identificate con la pratica della memoria e con la conduzione (fondata sulle catene mnemoniche) del ragionamento interiore, che le vedute urbane divennero sinonimo di strumenti meditativi.

La motivazione di questa associazione stava nella figura retorica chiamata « composizione di luogo » (derivata dagli elogi di città, gli encomi, ecc.). Essa consisteva nell’immaginare in un paesaggio urbano noto le storie della passione, ma anche i componenti di qualsiasi altro ragionamento meno nobile. Dal XV secolo, quando la pratica si diffuse, al XVIII secolo, le vedute di città svolsero questa funzione. Un manuale scolastico del domenicano Johannes Host à Romberch (Congestorium artificiosae memoriae, Venezia 1533), ne produceva una figura tipo ad uso degli studenti. Ma anche il Liber chronicarum di Hartmann Schedel (1493), la prima cronaca universale a stampa illustrata con immagini urbane, nota come Cronaca di Norimberga, precisava nella sua campagna promozionale di vendita che questa era la sua specifica funzione : aiutare a memorizzare le informazioni con le figure delle città.

Questo spiega il successo delle mappe a stampa del XVI secolo e la persistente tradizione di decorare con vedute geografiche, urbane o paesaggistiche, gli spazi della vita privata : le tarsie dei cori, gli scrittoi, gli sportelli degli armadi, i pavimenti, i paraventi. La portatilità o la vicinanza intima di questi oggetti faceva le veci dei moderni Post-it (finché ce se ne rese conto e se ne fece uso), ma con una dignità e praticità ancora superiore perché queste iconografie non facilitavano solo la memoria di singoli concetti, ma anche la loro interazione reciproca. Non erano repertori paradigmatici, ma sintagmatici.

Fu così che le figure di città divennero strumenti per pregare. La beata Battista da Varano, nel XV secolo, le usava a questo scopo e sant’Ignazio consigliava l’impiego di questo genere di immagini nella pratica degli esercizi spirituali. Il gesuita Matteo Ricci ne applicò l’istruzione utilizzando un mappamondo (come ho già spiegato sul catalogo della mostra di Macerata, Roma e Berlino) come strumento di evangelizzazione dei cinesi, considerandolo un potente strumento di persuasione delle coscienze. E il mappamondo fu montato su paraventi di carta di riso.

Le tarsie dei cori monastici con le vedute urbane erano anche loro collocate nel luogo in cui si praticava, di nuovo, la salmodia.

Mappe e diagrammi geografici

Concepiti come aiuti della memoria, mappe e diagrammi non modificavano di molto il loro funzionamento e, infatti, venivano classificati nelle biblioteche medievali agli stessi scaffali. Entrambi aiutavano a recuperare informazioni memorizzate.

I mappamondi a TO non erano tuttavia espressione di un imbarbarimento delle cognizioni geografiche, ma esempi della semplificazione delle figure utilizzate per memorizzare in un ambiente culturalmente stabile nel quale le immagini avevano assunto un carattere tachigrafico (come sui muri delle ville di Pompei).

Fu nel XV-XVI secolo, con l’impiego emotivo e retorico delle immagini geografiche nei confronti di un pubblico più vasto (e non per l’introduzione della riscoperta delle tecniche proiettive tolemaiche, come si crede) che le figure geografiche diagrammatiche assunsero una forma più naturalistica.

Al contrario di quel che sostiene la storiografia positivista, l’avvicinamento all’immagine realistica non è stata frutto del filtraggio delle ideologie simboliche medievali, ma di una loro accentuazione in direzione retorica e persuasiva.

Bernardino da Siena per esempio, nel XV secolo, utilizzava i quartieri noti della sua città, nelle prediche, per sviluppare la potenzialità evocativa delle sue parole nelle immagini mentali dei suoi appassionati ascoltatori. Queste immagini, anche se frutto di parole, erano identiche a quelle prodotte dalla visione delle mappe.

Il discorso descrittivo era cartografico quanto quello fondato sulle figure. La mappe venivano chiamate Descriptiones.

3. Non sono le mappe ad essere simboliche ; è la logica del simbolo ad essere cartografica

Nell’Ottocento la geografia era ancora utilizzata come arte della memoria e come alfabetizzazione mnemonica (anche oggi un’aula scolastica è iconologicamente contrassegnata dai banchi e dalla mappa, come nelle aule di Comenio ricostruite nel suo museo a Praga).

Le cosiddette « curiosità cartografiche » rappresentano l’ultima stagione di questa tradizione che non impiegava le mappe per dare informazioni geografiche, ma, al contrario, utilizzava le immagini geografiche per aiutare a fornire e memorizzare informazioni di altra natura.

Così troviamo, nei secoli XVII e XVIII, le carte antropo e zoomorfe per sceneggiare la « naturalità » delle dinastie regnanti o delle classi dirigenti (come il Leo Belgicus e l’Aquila Tyrolensis), oppure la cosiddetta « cartografia galante » dei secoli XVII e XVIII per classificare con energia retorica le diverse tipologie e strategie dell’innamoramento, della vita familiare, dell’erotismo. Ma anche l’inverso : l’uso dei corpi femminili per rappresentare i continenti.

Questo insieme di forme simboliche costituisce l’ornatus, che è il veicolo principale della comunicazione mnemonica e della conseguente strategia performativa. È ornatus la decorazione delle mappe, ma anche quella della città. Fanno parte dell’ornatus le decorazioni floreali dei codici, che rappresentano le catene mnemoniche consentite dai testi. Flores erano le enciclopedie medievali, giardini della memoria, e floreali erano le decorazioni che celebravano la potenza del mezzo, come le decorazioni delle mappe che sceneggiavano con putti e grottesche i nuovi mezzi tecnici del sapere : lenti, compassi, astrolabi, ecc.

Questi strumenti rivelano la loro condizione funzionale di strumenti al servizio di un padrone, ma, a rigore, essi non intendono essere per forza persuasivi e allegorici. Essi sono metaphorai nel senso originale del termine, come si chiamano (è una osservazione di Michel De Certeau) i bus della Atene di oggi. Essi offrono il loro mezzo per veicolare informazioni e catene mnemonico-meditative.

La nostra tendenza a ricercare sempre un significato dietro l’utilizzo dei simboli cartografici (che è in fondo il corrispettivo ideologico del nostro sistema culturale ed economico fondato sul mercato : il significato è l’equivalente linguistico del guadagno nella relazione mercantile) può rischiare di farci perdere di vista una componente altrettanto significativa di culture diverse dalle nostre che continua a vivere in documenti come questi. Essi non sono allegorici solo per significare, ma, in quanto figure mnemoniche, offrono motivo, con il loro ornatus (Contemno et orno era il motto di Abramo Ortelio, che aveva fatto l’inluminator delle carte per molto tempo), cioè con il vistoso corredo di immagini che portano con sé, per sviluppare percorsi a scelta, catene di associazioni mentali. Sono corrieri generativi del pensiero che possono anche essere utilizzati, se lo si vuole e se ne è capaci, per memorizzare informazioni diverse.

4. Dal racconto di viaggio al saggio sperimentale

Nel capitolo 10: 103 dell’Advancement of Learning, Bacone, facendo un paragone tra l’arte di fare mappe e il suo modello di empirismo (che celebrava il marinaio come suo eroe: gli abitanti della Nuova Atlantide erano marinai-sapienti), dice: « bisogna fare come i cartografi: allontanarsi per vedere meglio le cose ».

Questa osservazione spiega come sia potuto capitare che lo strumento retorico più ideologico e persuasivo della tradizione occidentale possa essere diventato il fondamento del nuovo genere retorico della scienza postgalileiana: il saggio sperimentale.

La scoperta di Bacone deve molto a Montaigne (che Bacone leggeva e imitava). Montaigne aveva detto che non si può conoscere che se stessi. Ma, estremizzando lo scetticismo del tempo, Montaigne aveva dimostrato che l’Io era la causa vera degli idola. Bastava in fondo rimuovere questo « disturbo del mezzo » per arrivare gradualmente alla realtà effettuale.

Le nuove mappe scientifiche del secolo XVII (Tom Conley le ha chiamate self-made maps), facendo scomparire il loro autore per un virtuosismo retorico-scientifico, e proponendo immagini realistiche del mondo, offrivano un modello efficace.

Lo scienziato poteva arrivare così alla contemplative prudence di Bacone negando se stesso attraverso una serie di purificazioni progressive che imitavano e portavano alla massima efficacia i processi meditativi condotti sulle mappe, come accadeva con i mandala tantrici (che erano mappe in grado di favorire la purificazione interiore per processo meditativo).

Attraverso opportuni trattamenti, il marinaio, prototipo del bugiardo, diventava così il modello dello scienziato. Trattate cartograficamente, le favole dei viaggiatori incalliti si trasformavano nel fondamento della verità scientifica.