Etnosemiotica : bozza di un manifesto

Francesco Marsciani

Università di Bologna

https://doi.org/10.25965/as.6522

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Mots-clés : altérité, anthropologie, communauté, constructivisme (immanent), description vs structuration, données, écriture, ethnographie, ethnologie, ethnosémiotique, expérience, interprétation, intersubjectivité, observation, texte, traduction

Auteurs cités : Clifford GEERTZ, Algirdas J. GREIMAS, Louis HJELMSLEV, Claude LEVI-STRAUSS

Plan

Texte intégral

1. Introduzione

Cominciamo da una prima definizione in negativo di ciò che a mio parere è, o almeno varrebbe la pena di far essere, l’etnosemiotica.

L’etnosemiotica non è :

i) una sociologia, nel senso che tende a non integrare categorie sociologiche, a partire da concetti come appartenenze, ruoli, istituzioni, classi, senza trasformarli, eventualmente, in categorie di pertinenza etnosemiotica, vale a dire determinate nella produzione locale di una significazione manifesta. Da questo punto di vista l’etnosemiotica prende le distanze da una certa socio-semiotica, per quel tanto che non sempre le ricerche socio-semiotiche sviluppatesi negli ultimi tre decenni, soprattutto in Italia, sono sembrate attente a una tale operazione di vaglio categoriale, prese sovente nella rincorsa a fornire una versione semiotizzata di categoremi e risultati di sapore sociologico a problemi sociologici ;

ii) una psicologia, nel senso che tende a non integrare categorie psicologiche, a partire da concetti come disposizioni, pulsioni, livelli di coscienza, caratteri, senza trasformarli, eventualmente, in categorie di pertinenza etnosemiotica. Da questo punto di vista l’etnosemiotica prende le distanze da una certa semiotica delle passioni, per quel tanto che le ricerche in semiotica delle passioni, a partire dalla sua messa a punto fondativa in Sémiotique des passions e poi nel suo utilizzo nelle analisi testuali, non sembrano sufficientemente al riparo dal ricorso a categoremi psicologici assunti spesso con una certa leggerezza e proiettati su una forma di validità naturalizzante ;

iii) una filosofia del linguaggio, nel senso che non si pone, né direttamente né indirettamente, non riconoscendoli come di propria pertinenza, i problemi relativi al significato, quelli relativi al valore di verità delle proposizioni né quelli relativi alla referenza. L’etnosemiotica non ha il problema della verità degli enunciati, né della loro funzione nell’ottica di un’epifania dell’Essere ; non ha il problema dell’adeguatezza del significato proposizionale rispetto a una realtà immaginata come esterna e non ha il problema della determinazione della funzione della facoltà di linguaggio per lo sviluppo specie-specifico dell’umano ;

iv) una linguistica, nel senso che tende a non considerare di propria pertinenza i tipi di oggettualità appartenenti di diritto a una scienza delle lingue naturali, a partire dai problemi di combinazioni di tratti elementari, problemi della doppia articolazione e dei rapporti tra denotazioni e connotazioni, problemi della determinazione del numero delle componenti elementari, problemi di costruzione morfematica e di sintassi frastica. L’etnosemiotica non ha categorie che corrispondano a taglie d’oggetto, non ha apparati concettuali adeguati per le figure in rapporto ai morfemi e questi in rapporto alla frase o al periodo ; meno che mai le considerazioni relative alle sostanze linguistiche, in particolare la fonetica e la semantica linguistiche, possono appartenerle se non nella misura in cui diventano, eventualmente, tratti etnosemiotici perché riconoscibili come pertinenti per l’analisi di fenomeni etnosemiotici ;

v) un’antropologia culturale, nel senso che tende a non porre al centro dei propri interessi le forme culturali come tali né la loro determinazione e la loro specificità. L’etnosemiotica tende ad evitare un rischio duplice che essa intravede nella pratica etno-antropologica : da un lato la tendenza a volere o dovere produrre conoscenze esaustive dei fatti antropologici (documentazione, riempimento di taccuini, verifiche delle informazioni raccolte), dall’altro la tendenza a specificare sempre più nel dettaglio le proprie aree di interesse (antropologia del dolore, antropologia della parentela, antropologia del visibile, antropologia del rituale, antropologia africanista vs americanista, ecc.). L’etnosemiotica non crede che il suo oggetto sia un insieme determinato di “fatti” (per quanto di natura culturale) di cui rendere conto. L’etnosemiotica tende, al contrario, a lasciare che le forme dei suoi oggetti si autorganizzino non ipotecando la loro identificabilità a partire da categorie precostituite, qual è la stessa categoria di cultura e il suo converso natura, o umano rispetto a non-umano. In questo senso, inevitabilmente, l’etnosemiotica non è una teoria dell’umano ;

vi) una “semiotica”, nel senso che non è una sintattica, né una semantica né una pragmatica, non è una teoria del segno, né a vocazione empirica né formale, non è una teoria dell’interpretazione e quindi non è una teoria delle inferenze interpretative, non è una teoria del funzionamento dell’universo semantico inteso come globalmente determinabile (enciclopedia), ma non è neppure una grammatica della produzione testuale, non è una teoria del contenuto né una teoria dell’espressione, e pertanto non è una teoria della produzione segnica né una teoria degli usi linguistico-semiotici dei testi, né inoltre una teoria della generazione del contenuto, da un lato, o della generazione dell’espressione, dall’altro. Allo stesso modo non è una teoria del funzionamento dei testi entro ambiti culturali dati a priori (semiosfere), e per questa ragione non è una semiotica della cultura (oltre che per il fatto di non sapere cosa sia “una cultura”).

Per passare allora da questa serie di prese di distanza, costitutive di una definizione in negativo dell’etnosemiotica, a una definizione in positivo della stessa, si tratta anzitutto di decidere come si debba intendere e trattare l’accostamento, o coabitazione, all’interno stesso del nome della disciplina, dei due termini “etno” e “semio” che apparentemente vi convergono come a partire da due mondi distinti, da due storie distinte e separate, due diverse esperienze scientifiche e due diverse tradizioni. A dire il vero, in ambito strutturale, etnologia (e antropologia) e semiotica hanno visto le loro strade sovrapporsi abbondantemente (si pensi al nodo Propp, Jakobson, Lévi-Strauss e Greimas) soprattutto nel senso di una crescita della prospettiva semiotica generativa a stretto contatto con gli studi etno-antropologici e folkloristici, assunti come un terreno d’elezione per la pratica di analisi e per la verifica concettuale, ma al tempo stesso, per converso, si pensi all’importanza della rivoluzione saussuriana, quindi della linguistica strutturale, per lo sviluppo dell’antropologia sociale francese di quegli anni. Rispetto a un tale quadro l’etnosemiotica potrebbe a buon titolo essere pensata come un approfondimento della stessa prospettiva e come una risposta efficace alla necessità di un dialogo più tenace e profondo tra un punto di vista antropologico e un punto di vista semiotico.

Per un altro verso, si potrebbe porre la questione, interna allo stesso movimento di reciprocità, di ciò che distingue tra loro l’antropologia, l’etnologia e l’etnografia, questione che è sempre lì sul tavolo anche se spesso risolta nominalmente, e tuttavia non di scarso rilievo precisamente per quello che riguarda il rapporto che la semiotica può o dovrebbe intrattenere con questo campo di studi. Possiamo o dobbiamo intendere la semiotica come una prospettiva all’altezza delle generalizzazioni antropologiche, o piuttosto alla taglia delle sintesi etnologiche specifiche, o forse quale strumento di affinamento al servizio del lavoro etnografico di campo ? E secondo queste tre alternative, che senso assumerebbe la messa a punto di una prospettiva etnosemiotica nella quale apparentemente i due corni del problema si incontrano e, auspicabilmente, si alimentano l’un l’altro ?

2. Le richieste degli antropologi

C’è stato un momento in cui gli antropologi si sono rivolti alla semiotica, o più in generale alle scienze del linguaggio, per dotarsi di uno strumento innovativo utile alla descrizione dei fenomeni cui rivolgevano lo sguardo. Certo, si può dire che già autonomamente Lévi-Strauss aveva ben visto e percorso questa strada, grazie al suo incontro con il saussurismo, e ne aveva tratto ragioni fondamentali per l’analisi strutturale sia dei sistemi di parentela che delle costruzioni mitiche, ma il movimento non si era chiuso con il grande antropologo francese e in altri termini, in epoca già post-strutturalista, in quella vasta ondata che vedeva il recupero dell’atteggiamento ermeneutico come protagonista un po’ fantasmatico delle svolte nelle scienze umane, altre richieste di un modello di razionalità basato sulle scienze del linguaggio emergevano in campo antropologico. Uno dei più noti antropologi ad aver formalizzato, in un certo senso, la richiesta, è stato Geertz il quale, nella sua antropologia interpretativa, impegnato nel tentativo di mettere a fuoco il cuore del suo atteggiamento descrittivo — interpretare interpretazioni — si era trovato a dover fare riferimento ad alcuni grandi modelli, grandi formanti culturali, che egli assumeva come metafore della natura già interpretante / interpretata dei comportamenti osservati : il gioco, il teatro, soprattutto il testo. Interpretare l’agire degli attori in situazione come un agire interpretato e interpretabile comporta fin da subito la messa in discussione della natura strettamente oggettiva dei dati osservati, e mette in moto un processo parafrastico tale per cui quel che l’antropologo dice e racconta dei nativi va compreso e gestito come una rielaborazione di elementi già significanti ; l’antropologo mette in una nuova forma scritta dati che hanno già la qualità delle storie, delle azioni sensate e che come tali vengono costantemente interpretati prima di tutto dagli attori coinvolti. La scrittura etnografica e la sintesi antropologica, a questo punto, sono discorsi su discorsi, nuovi testi su testi dati, e l’operazione stessa della scrittura diventa un momento su cui riflettere, da teorizzare e da controllare, anche perché si configura come il luogo in cui la relazione difficile tra le categorie interpretative dei nativi e le categorie interpretative dello scienziato rischia di mettere nuovamente in gioco le asimmetrie più classiche, quelle che vanno sotto il nome di etnocentrismo o eurocentrismo. Il tema della scrittura è stato al cuore di elaborazioni anche sofferte da parte di giovani studiosi che da Geertz avevano tratto molti spunti per un rinnovamento della disciplina antropologica. Si tratta, come si può ben capire, di un tema tutto giocato a cavallo delle sbarre che definiscono la gabbia colonialista nella sua essenza stessa : con quali schemi leggeremo i comportamenti dell’altro ? Con quali grammatiche, oltre che da quale pulpito ?

Se questo della scrittura, e dell’interpretazione di cui la scrittura è testimonianza, diventa un tema di discussione in antropologia, si capiscono bene le ragioni che, in un certo senso, hanno indotto alcuni studiosi ad avanzare una richiesta, in varie forme e a vario titolo, nei confronti delle scienze del linguaggio, della linguistica e della semiotica, al fine di affinare la loro capacità di controllo della produzione scientifica la quale, come scherzava Geertz, non è quasi altro che la produzione di volumi da collocare sugli scaffali delle biblioteche universitarie americane. Affinare una capacità di controllo sulle procedure di interpretazione e di scrittura, dunque, ma anche, allo stesso tempo, capacità di controllo sui processi di osservazione. Tuttavia, mentre si può pensare che per quanto riguarda l’interpretazione e la scrittura, la richiesta di dialogo e competenze da parte dell’antropologia nei confronti delle scienze del linguaggio partano da una posizione già notevolmente consapevole e che tutto sommato tali studiosi sappiano sufficientemente bene cosa pensano di trovare presso gli interlocutori (si tratta principalmente di una problematica della traduzione — come traduco le interpretazioni dei nativi nelle mie e come traduco i miei appunti in un testo pubblicabile), si può altrettanto ragionevolmente pensare che essi non sappiano con sufficiente chiarezza che stanno ponendo in realtà un grande e grave problema, quello davvero considerevole dell’osservazione stessa, cioè il problema del controllo delle categorie che definiscono i dati in quanto tali, che decidono dell’oggettività degli oggetti in esame, che selezionano le rilevanze e le dominanze entro gli orizzonti che delimitano, definendole, le situazioni da studiare.

Note de bas de page 1 :

Ne menziono una figura altamente stereotipata, ovviamente, una sorta di ideal-tipo della figura professionale dell’etnografo, ben lontana dalla sensibilità e dall’intelligenza che la maggior parte degli etnografi reali, sul campo, dimostrano con le loro ricerche.

Si tratta di un problema che in tempi recenti è stato posto in maniera radicale da una parte dell’antropologia, quella che, tra non poche polemiche, ha posto il problema della legittimità ontologica delle cosmologie amerindie e delle trasformazioni che le stesse pongono ad una razionalità occidentale che, nella sua forma scientifica antropologica, intende farvi i conti. È un problema, tuttavia, che da sempre segna un atteggiamento inevitabilmente diffuso nelle ricerche etnografiche condotte sul campo da parte dei ricercatori, un atteggiamento che svela una sorta di affidamento (cui sottende una strisciante ingenuità) oggettivistico e realista, in un senso strettamente epistemico : l’etnografo1 ha la tendenza a riempire di appunti quaderni su quaderni per riportare a casa il maggior numero possibile di dati, produce documentazioni fotografiche e registrazioni video e audio, protocolli di interviste agli informatori, il tutto nell’ottica dell’esaustività come valore ideale, irraggiungibile per principio ma tendenziale, all’insegna di una sovrapposizione concettuale tra la natura oggettiva dei dati e la loro lettura a posteriori, quasi la riproduzione ideale dell’osservazione diretta (paradosso della mappa e del territorio) la quale non mette in discussione le prefigurazioni e gli stereotipi, almeno non nei termini delle selezioni e delle rilevanze, e questo precisamente a causa del fatto che è il momento dell’osservazione in quanto tale a non essere messo in discussione. Osservare è costruire, istituire e costituire ; l’osservazione è un momento decisivo del costituirsi dell’oggetto osservato, non un momento secondo o secondario ; non si osserva qualcosa di già dato, qualcosa che ha una propria esistenza esterna indipendente dallo sguardo dell’osservatore, poiché una tale cosa semplicemente non esiste, non ha facce osservabili, non ha prospettive, non ha posto nel mondo, non ha relazione con la presa di uno sguardo che vi si orienta, in una parola non ha legittimità. Come vedremo, sarebbe precisamente il tema dell’osservazione quello cui dovrebbero dedicare attenzione e approfondimenti sia gli antropologi, da un lato, che i semiologi, all’altro.

In ogni caso, la domanda di controllo semiotico delle procedure di traduzione è una domanda che merita di essere presa sul serio e che punta il dito, fin dalla sua stessa formulazione, su un terreno che va considerato, quanto meno, un terreno di scambio e di dialogo promettente. Si presenta tuttavia come una richiesta di servizio, rispetto al quale la semiotica può ben trasfigurarsi in etnosemiotica, di tanto in tanto, al fine di soddisfare il bisogno, prestando i propri strumenti analitici alla messa a fuoco e al dipanamento dei meccanismi di interpretazione e traduzione nei quali gli etnologi si trovano coinvolti e, in un certo senso, impigliati. È vero, in effetti, che una lettura semiotica dei dati raccolti sul terreno e portati a casa, in una delle tante forme testualizzate possibili, può contribuire alla delucidazione delle strutture di senso che, ai vari livelli di profondità e necessità significante, vi si trovano implicate, e questo a patto che li si tratti, ogni volta, come veri e propri testi, ovvero come vere e proprie strutture di manifestazione del senso.

3. La posizione delle semiotica

Dal lato della semiotica, si potrebbe considerare l’etnosemiotica come una possibilità, o forse meglio un progetto, di allargamento del campo di oggetti cui prestare lo sguardo ed nei confronti dei quali esercitare la propria competenza. La storia recente della semiotica (gli ultimi tre decenni, grosso modo) ha mostrato, con una certa gradualità, l’emergere di questa tendenza. Nonostante in realtà i semi fossero già tutti presenti e non troppo celati fin dagli esordi (mi riferisco agli anni ‘60), in tempi più prossimi abbiamo assistito, e contribuito in fondo, al sorgere di diverse “semiotiche” orientate al mondo dell’esperienza, dove non si trattava più di rincorrere il vecchio adagio che voleva che oggetto della semiotica fosse inevitabilmente, e per ragioni epistemologiche profonde, un mondo di carta: semiotica degli oggetti, semiotica della praxis, semiotica del corpo, semiotica delle pratiche, semiotica delle forme di vita, ecc.

È stata una progressione costante verso la cosiddetta “uscita” dal testo, come se la dimensione testuale, con il principio di immanenza attivato, potesse essere considerata una questione di taglia, come se si trattasse di aprire uno spazio delimitato entro l’insieme degli oggetti del mondo (come se nel mondo ci fossero oggetti-testo, da una parte, e oggetti-oggetti, oggetti-altro, oggetti-cose, dall’altra) o ancora come se nella dimensione empirica vi fossero cose che sono testi e cose che non sono testi, salvo poi scoprire lentamente che la significazione abita anche in quell’altra cosa là, e poi in quell’altra ancora. Ora siamo tutti d’accordo, mi pare, ma ci si è dovuti passare.

Sociosemiotica, allora, e psicosemiotica, e antroposemiotica più recentemente, e dunque perché non anche etnosemiotica…? Etnosemiotica non è certo un nome appena inventato ; era già ben presente all’epoca. Ma cos’era, in realtà, l’etnosemiotica proposta tanto tempo fa da Greimas stesso (v. Dizionario e Semiotica e scienze sociali) ? Apparentemente, nient’altro che un campo allargato di interessi, distinto dalla sociosemiotica grazie a un criterio di distanza tra osservatore e dominio oggettale, essenzialmente : sociolinguistica / etnolinguistica, socioletteratura / etnoletteratura, ecc. ecc., sempre un campo vicino opposto ad un campo lontano, sempre del prossimo opposto a dell’esotico. È un criterio che dovrebbe definire reciprocamente ciò che è socio- e ciò che è etno-, con la conseguenza di produrre una deriva che investe la sociologia e l’etnologia stesse, le quali probabilmente, per parte loro, non si accontenterebbero facilmente di una tale interdefinizione.

Tuttavia, in questo quadro, ciò che consente alla semiotica di declinarsi in etnosemiotica resta, in fondo, l’assunzione del fatto che la semiotica è un metodo, un metodo certamente ben fondato su una teoria e su un’epistemologia, ma essenzialmente un metodo che si può applicare ad un campo empirico dove le cose sono già date, come dei fatti esterni, e dove è talvolta possibile riconoscere in mezzo a tali cose oggetti suscettibili di essere considerati, e quindi trattati semioticamente, come testi, dotati di una natura testuale (la quale peraltro, in questo contesto, andrebbe quantomeno meglio definita).

Ed effettivamente, se si torna ad una definizione un poco più rigorosa di “testo” (diciamo così “alla Hjelmslev” : qualunque oggetto in quanto suscettibile di essere analizzato) la questione si fa un po’ più complicata e si pone il problema non già di “riconoscere” dei testi nel mondo, ma di costruirsi i propri oggetti ovunque sia possibile proiettare strutture di senso e questo grazie ad un vero e proprio lavoro di esplicitazione controllata della testualizzazione ingenua e quotidiana entro la quale siamo tutti costantemente immersi. Essendo tutto testualizzato senza sosta e ovunque, il compito che dovremo assumerci consisterà nel testualizzare a nostra volta, ma in maniera teoricamente controllata, ovvero imporre alla parafrasi generalizzata una vocazione scientifica. Là fuori, ogni cosa è un nodo di significazione in realtà, e proprio perché lo è potenzialmente, perché lo è eventualmente, perché può sempre esserlo, proprio in virtù di questa natura legata al possibile, lo è davvero ed efficacemente. La semiotica diventa etnosemiotica quando si affianca programmaticamente alla questione geertziana, quando lo fa decidendo di farlo sul serio : quel che facciamo anche noi come semiologi consiste nell’interpretare interpretazioni, nel risolvere descrittivamente, nelle forme scientifiche della nostra testualità, quel mondo che prende forma, che ha già sempre preso forma, in altri testi dove altri attori non cessano di interpretare interpretazioni.

4. La questione

Ecco dunque il problema, eccolo che appare nella sua forma più chiara : possiamo accontentarci di questa occasione di dialogo tra una pratica empirica di raccolta di dati, da un lato, e una metodologia che sembra considerarsi in difetto di oggetti da analizzare ? Dobbiamo considerare l’etnosemiotica nient’altro che questa felice convergenza tra due bisogni distinti, due distinti atteggiamenti e due distinte pratiche, che finalmente si riconoscono e si ricongiungono tra loro ?

Proporrei di tornare a considerare il nome “etnosemiotica”, etnosemiotica senza trattino, e pensare a ciò cui può rinviarci il prefisso “etno”. Potrebbe essere utile e sembra legittimo estrarne una sorta di essenza, un nocciolo nascosto, e passare dalla sua etimologia un po’ referenziale (vorrei dire “troppo referenziale” …) che ha come proprio oggetto significato il popolo, la popolazione, il classico “gruppo etnico”, che appare come una realtà collocata da qualche parte nel mondo, meglio se lontano e in una foresta, che noi andiamo ad osservare, visitare, studiare, descrivere nella sua apparenza e attraverso i tratti che esso stesso, quel popolo oggetto, ci permette di svelare e riconoscere, … passare da questa accezione ad un’altra valorizzazione di “etno”, quella di qualunque comunità che si riconosca come tale, cioè come una comunità, il che comporta che la si debba considerare come una realizzazione di condivisione intersoggettiva di categorie costitutive, fondatrici, diciamo, delle relazioni che fanno sistema e che permettono a un insieme di istanze di coordinarsi l’una in rapporto alle altre. Questo non è più necessariamente un oggetto esterno, ancor meno lontano e selvaggio. Si tratta niente meno che delle condizioni significanti della vita in comune, condizioni che sono significanti nella misura in cui articolano e categorizzano l’esperienza intersoggettiva del mondo vissuto.

Etnosemiotica, allora... similmente a ciò che in campo sociologico si affermò a suo tempo come progetto etnometodologico, prospettiva che partiva da un dettato fondamentale : mettere costantemente in sospensione le categorizzazioni fisse, stabilizzate, sulle quali si fonda la vita sociale e sulle quali fa affidamento una sociologia oggettivista e mettersi alla ricerca dei processi di costruzione di queste stesse categorie. Possiamo pensare a un etnosemiotica allo stesso modo, senza doverci limitare alle questioni del sociale propriamente detto, bensì, esattamente come è e come è sempre stato nell’anima della semiotica, andare più a fondo, verso le condizioni fenomenologiche di condivisione di uno stesso mondo da parte delle istanze intersoggettive. Si tratta di descrivere i processi dinamici della validazione della realtà, e questi processi si sviluppano nell’esperienza stessa che noi facciamo del nostro mondo.

Una tale etnosemiotica non è più dunque l’incontro tra due discipline, o due pratiche scientifiche che si avvicinano l’una all’altra a partire dalle loro identità ben distinte, ma, al contrario, può considerarsi come un modo integrato di valorizzare quello che hanno, e in realtà avevano già da molto tempo, in comune : in particolare che cos’è un oggetto di senso (testi o simbolizzazioni per l’una e per l’altra) e che cosa vuol dire, in che cosa consiste, osservare (cosa si prende in considerazione, e come, quando si osserva l’esperienza vissuta).

5. Alcune risposte

i) Descrizione vs strutturazione

Qual’è dunque l’oggetto dell’etnosemiotica ? Non si tratta di descrivere o di rendere conto dei dati, bensì di dispiegare i processi di strutturazione. L’oggetto dell’etnosemiotica, a rigore, non è altro che l’articolazione stessa, in generale e nella sua efficacia strutturante in quanto tale. Non ci sono campi oggettali identificabili a priori ; non ci sono domini, regioni empiriche, da condividere o ripartirsi con altre scienze o discipline. L’interesse dell’etnosemiotica non porta sulle cose del mondo, sugli oggetti costituiti ; ci si interessa invece alle condizioni che fanno sì che degli oggetti si diano, che delle cose appaiano e prendano senso.

ii) Osservazione vs pertinentizzazione

Il momento dell’osservazione, d’altra parte, è essenziale poiché è il momento della trasformazione in procedura controllata (a vocazione scientifica) di ogni costituzione. L’osservazione non è il momento trasparente dove si recita l’ingenuità di uno sguardo pulito, uno sguardo neutro pronto a vedere tutto, a cogliere tutto, ad accettare tutto ; al contrario, è il momento di una decisione di pertinentizzazione. L’osservazione è sempre informata dalla domanda semiotica che decide della significazione. Non si osservano altro che valori i quali, imponendosi su una realtà vissuta, le forniscono la forma significante che, facendo presa con una istanza-soggetto, diventa un oggetto semiotico per intero, quel testo di cui si ha bisogno per condurre un’analisi propriamente detta.

iii) Alterità vs esternità

Il quadro che in questo modo si va delineando mette fortemente in discussione la relazione che ogni scienza obiettiva stabilisce tra il soggetto epistemico e il suo oggetto di conoscenza. La scientificità del progetto semiotico non può esimersi dall’avanzare un sospetto su questa impostazione classica che vuole che la conoscenza scientifica abbia i suoi due momenti separati da uno statuto ontologico definito : il soggetto e l’oggetto, il metodo e i dati, le categorie descrittive e la materia da descrivere che ne viene informata, come due momenti che provengono da una fonte indipendente, che hanno una natura e uno statuto indipendenti. Non vi è nessuna indipendenza reciproca, in realtà ; la relazione potendo essere intesa e trattata come una relazione di alterità piuttosto che come una relazione di esternità. Il soggetto e l’oggetto si interdefiniscono, come sappiamo, e lo fanno non solo di fronte a noi, là dentro ai testi, per così dire e come vuole la tradizione di una semiotica metodica già bene attestata che conosce e sfrutta l’attanzialità narrativa, ma lo fanno altrettanto nella relazione metasemiotica che regge la presa del senso e la sua descrizione. Per questa ragione la relazione epistemica non è data prima dell’incontro, prima dell’osservazione nel nostro caso specifico, bensì insieme ad essa e viene decisa ogni volta in una sorta di messa a regime della pratica che è una messa a regime condivisa, non già contrattata (ché non è questione di intenzioni), bensì articolata, dispiegata, svolta entro il rapporto dinamico dell’alterità : l’oggetto è il nostro Altro e come tale ci osserva a sua volta a partire da una posizione soggettiva sempre possibile e sempre attiva in realtà, per quanto sotto un’altra, appunto, prospettiva o pertinenza. La relazione e la pratica dell’osservazione è una pratica che si rivela così reversibile, sempre ogni volta (ri)decidibile nella sua direzione e capace di mescolare o intrecciare le linee di proiezione e di valorizzazione. I miei ritagli, le mie pertinenze, nel definire l’altro come oggetto incontrano il movimento contrario nel quale è l’altro che mi definisce proiettando su di me le sue categorie interpretative e con ciò modificandomi, modificando il mio sguardo, la mia posizione e il mio statuto, in una relazione che è una relazione di trasformazione.

iv) Un costruttivismo che si riconosce come immanente

Attenzione, allora… Se non si dispone di oggetti da osservare che non siano altro che strutturazioni che prendono forma nell’interazione, e se l’osservazione decide sempre della natura di ciò che si osserva, e se la natura di ciò che si osserva si riverbera sulla natura di colui che osserva, allora l’osservazione etnosemiotica è sempre coinvolta in un costruttivismo radicale, ma un costruttivismo speciale, un costruttivismo essenzialmente passivo e secondo, cioè un costruttivismo che si riconosce come immanente rispetto ai processi di costruzione, dove, prima di essere primo, prima di essere origine e fonte del senso di ciò che osservo, sono costretto a riconoscermi come parte del reale che assumo ad oggetto. E questo perché l’etnosemiotica, essendo una semiotica in senso proprio, non guarda il mondo come un ricettacolo di cose che sono, di cose di cui render conto come tali, nella loro natura di enti, ma si interessa esclusivamente del loro significare, delle condizioni del loro senso, del valore significante che le fa essere, non già quel che sono, ma quel che valgono. È, in un certo senso, la ripresa della vecchia formula semiotica strutturale : non è altro che senso che parla del senso, attraverso tutte le riformulazioni che la produzione della significazione comporta. Al di là di tutte le apparenze e dei modi che abbiamo di raccontarci, di raccontare noi nel mentre raccontiamo l’altro, in quanto etnosemiologi ci interessiamo al mondo soltanto per mettere allo scoperto le condizioni del suo significare.